C’è una frase nel libro dei Salmi che mi ritorna in mente ogni volta che mi sento afflitto e che dà voce alla mia fiducia nel Signore.
Esito a citarla, perché la formulazione è equivoca, e se fraintesa può capovolgere il significato cristiano della sofferenza. Eppure, nel corso degli anni, essermi cimentato con l’ambivalenza di questa frase è diventato fonte di consolazione inesauribile.
La frase è «Bene per me se sono stato umiliato, perché impari i tuoi decreti» (Sal 119,71). È ambivalente perché implica che Dio ci causerebbe delle sofferenze o ci lascerebbe soffrire per darci una lezione. Altre frasi qui e là nella Scrittura sembrano avvalorare questa interpretazione, come le parole dal libro dei Proverbi citate nella Lettera agli Ebrei: «Il Signore corregge colui che egli ama e percuote chiunque riconosce come figlio» (Eb 12,6 che cita Pr 3,12).
Tuttavia, ancor più dell’apparente conferma della Scrittura, ciò che conferisce peso a questa interpretazione è che essa piace al più insidioso parassita della nostra vita spirituale ed affettiva, vale a dire al nostro senso di colpa. Se questa sventura, questo problema, quest’incidente capita a me, è perché ho disobbedito a Dio, gli ho causato dispiacere in un modo o nell’altro e quindi me lo merito.
Questo travisamento della fede cristiana ha una presa così potente su di noi perché costituisce il nocciolo del senso pagano del sacro, ed ha afflitto l’umanità sin da quando il primo sentimento religioso ha albeggiato nella coscienza dei nostri più antichi antenati.
L’istinto religioso umano si basa sulla paura. Dovendosi confrontare con un ambiente che potevano capire solo parzialmente, i nostri antenati ascrivevano tutto ciò che non potevano spiegare ad agenti invisibili (dei, demoni, spiriti) la cui identità e le cui motivazioni erano inscrutabili. Da qui la tentazione di attribuire le calamità naturali o le disgrazie ad agenti soprannaturali che avremmo potuto inavvertitamente offendere e che devono essere placati in un modo o nell’altro. A queste circostanze gli antropologi fanno risalire la comparsa dei sacrifici di sangue (umano o animale): il sangue era percepito come un modo per espiare il presunto dispiacere di questi agenti soprannaturali che avremmo potuto offendere, o per ingraziarseli in via precauzionale, o, perché no, richiedere il loro sostegno contro i propri nemici.
Oggi potremmo pensare di aver superato questi istinti primitivi, specie considerando che siamo più o meno persuasi dal fatto che ogni cosa sia spiegabile scientificamente e che se qualcosa risulta ancora incomprensibile, un giorno ci arriveremo. Eppure, questi istinti rimangono molto vivi e hanno cambiato il loro obiettivo solo marginalmente. Che crediamo o meno che ci sia una spiegazione per uno tsunami, un terremoto, una pandemia, un attacco terroristico o, più mondanamente, per una malattia, una serie di angosce, un dolore e così via, ogni volta che una di queste avversità ci colpisce non possiamo evitare che una domanda insistente ci assilli: «Perché a me?» o «Cosa ho fatto per meritarmelo?».
Potremmo non accorgercene, ma frasi del genere svelano la nostra profonda convinzione che esistano attori o principi nella natura e nella storia che ci infliggono ritorsioni e punizioni per correggerci. La fede nel Dio di Gesù Cristo non ci protegge automaticamente da questi istinti e questo può condizionare la nostra interpretazione del versetto sopra citato: bene per me se sono stato umiliato, perché impari i tuoi decreti, “è giusto che questa sfortuna sia capitata a me perché devo essere punito e imparare la lezione”.
Come può una tale frase diventare una preghiera? Come può aiutarci a relazionarci con Dio nel modo giusto? Come può far parte dei Salmi, ovvero del corpo delle preghiere autorizzate e raccomandate dalla Scrittura?
Risponderei così: essa ci fa del bene precisamente nella misura in cui dà voce al nostro senso di colpa, lo smaschera e lo affida al Signore. Sotto molti aspetti questo è simile a quanto accade quando un bambino, che ha combinato qualche guaio, piange perché si aspetta di essere rimproverato o punito, pur sapendo che la mamma o il papà reagiranno esattamente nel modo opposto, consolandolo e abbracciandolo.
L’unico rimedio per il senso di colpa è la tenerezza. Nel momento in cui affidiamo il nostro senso di colpa all’amore del Padre, esso perde il suo potere e svanisce come neve al sole.

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